Pensavo che lo storia era finita e invece leggete un pò....
Se l'infermiere va al potere in corsia
LA FEDERAZIONE nazionale degli infermieri ha comprato ieri un'intera pagina del Corriere della sera per confutare ciò che avevo scritto sulla mia rubrica "Linea di confine" a proposito dei mutamenti avvenuti nella loro professione. ANCHE se è inconsueto ribattere a una pagina pubblicitaria, per di più di un altro quotidiano, la questione sollevata ci sembra di tale impatto per il futuro del servizio sanitario e per la cura dei pazienti da meritare un ulteriore approfondimento. Inoltre il tema rappresenta un vero e proprio test di quale deriva stravolgente possa innestare in un paese come il nostro la pulsione al corporativismo di categoria, di quanta incoscienza possano dar prova i ceti politici quando legiferano per assicurarsi consenso laddove la forza del numero fa premio su ogni logica coerente, di quanto in questo, come in tutti i settori pubblici, l'interesse degli addetti ai lavori finisca sovente per prevalere sui diritti e le attese degli utenti, col contributo delle rappresentanze di categoria, soprattutto quelle autonome dalle Confederazioni. Prima di entrare nel merito desidero ribattere a quanti hanno considerato irrisorie e sprezzanti alcune mie considerazioni che, pur non essendo uso a complimenti formali, ho sempre nutrito rispetto e stima, anche per tante esperienze personali, per quell'esercito di infermiere ed infermieri che lavorano con dedizione, capacità, spirito di sacrificio al servizio dei pazienti, spesso in condizioni disagevoli e sempre mal pagati. Sgombriamo, dunque, il campo da equivoci e risentimenti reciproci e veniamo al punto centrale che riassumerei in quel passaggio del paginone dell'Ipasvi dove si afferma giustamente che «l'integrazione professionale e il lavoro di squadra sono una necessità ineludibile per ogni organizzazione sanitaria moderna»; subito dopo, però, si precisa «che il ritorno a rigide gerarchie tra professioni non solo è anacronistico ma risponde a vecchie logiche di potere». Il dissenso nasce qui e si àncora ad un giudizio, più volte espresso, sugli effetti destabilizzanti e anche distruttivi di taluni (sottolineo «taluni», a scanso di generalizzazioni) aspetti della riforma universitaria e delle molteplici modifiche di quella sanitaria. In particolare l'introduzione del cosiddetto 3+2 e la moltiplicazione dissennata dei corsi di laurea (dovuta alla rincorsa corporativa accademica) ha creato, assieme a una miriade di cattedre, una miriade di nuove «professionalità» con titoli di laurea dottorale di prima e di seconda fascia. Nell'ambito sanitario, come mi informa il sottosegretario on. Patta (ds), ben 22 sono queste nuove scienze, che vanno dall'infermieristica all'igiene dentale, dagli addetti di laboratorio ai podologi, dagli psicologi agli assistenti sociali. Se ciò significasse che una serie di figure, già operanti da sempre nei nosocomi, sono messi in grado di certificare il raggiungimento di un più qualificato livello culturale e tecnologico e, di conseguenza, l'ottenimento di una più ampia autonomia operativa e di uno stipendio più decente, il passaggio sarebbe assolutamente positivo. Per contro la perplessità nasce, invece, quando si legge, nello scritto, sempre del sottosegretario, «che ogni operatore esercita la propria professione all'interno del proprio ambito operativo... mentre i medici restano titolari della diagnosi clinica (da non confondersi con la diagnosi infermieristica, ndr ), degli atti medico-chirurgici e della prescrizione della terapia farmacologica » . Questa suddivisione giuridica ha come ricasco che ogni categoria ha una sua progressione di carriera con propri primari del tutto indipendenti dai primari medici. Come immaginare che una siffatta frammentazione conduca ad un lavoro interdisciplinare armonico? Provano il contrario le numerose e-mail ricevute. Cito per tutti quello di una infermiera , laureata presso l'Università di Firenze, che mi spiega: «L'epoca in cui la caposala (oggi infermiere coordinatore) rispondeva al primario è ben lontana... l'infermiere è l'unico responsabile dell'assistenza infermieristica generale e non c'è medico che possa sindacare processi e pianificazioni assistenziali... la legge inoltre afferma come ci siano settori in cui si richiede che la dirigenza sia affidata all'infermiere... non esiste gerarchia tra infermieri e medici e il medico non avrà mai responsabilità per ciò che fa l'infermiere». Affermazioni anche psicologicamente significative. Non credo, però, che il problema vada affrontato sotto l'ottica dei rapporti di potere ma alla luce degli interessi del malato e dell'organizzazione ospedaliera, in particolare nelle corsie. Confesso che sono un partigiano della medicina olistica, quella, cioè, che prende in carico l'uomo nel suo assieme e non come somma delle sue varie parti. Per questo ho molti dubbi sugli eccessi di specializzazione anche in ambito medico ed invidio la pratica americana (basta guardare una delle tante fiction in materia) dove tutti gli specialisti si riuniscono attorno al malato ed assieme pervengono alla diagnosi e alla cura. In questo ambito il massimo di competenza specifica, compresa quella infermieristica, si sposa col massimo di collaborazione. Da noi non è certo così e, se è giusto puntare ad una pratica multidisciplinare e ad un lavoro di équipe, l'approccio che mette tutte le categorie sullo stesso piano, negando la necessità che in corsia esista, accanto a vasti ambiti di autonomia funzionale, qualcuno che per competenza scientifica ed esperienza sia in grado di prendere decisioni di ultima istanza valide per tutti, vuol dire gettare le premesse per dissidi corporativi, caotica disorganizzazione, prepotere sindacale istituzionalizzato. Ma non è tutto. In Italia ci sono 342.000 infermieri, teoricamente tutti sulla rampa di lancio per il diploma dottorale (oggi l'offerta formativa universitaria è di 13.000 posti l'anno). L'organico attuale risulta, peraltro, basso e l'attività in molti ospedali è intralciata dalla carenza infermieristica (doppi turni, liste di attesa, bassa utilizzazione delle strutture chirurgiche e diagnostiche). Il ricorso a cooperative di extra comunitari è diventato necessariamente massiccio . Ora, se un certo numero di infermieri laureati, esperti di bioetica, risk management, etnografia, oltre che di assistenza del paziente, è certamente prezioso, resta il quesito sulla contraddizione obbiettiva tra le nuove classifiche professionali di tutti i neo laureati (o riconosciuti tali ope legis ) e le necessità quotidiane dei pazienti e dell'organizzazione ospedaliera. Sarebbe ipocrita pensare che un dottore in scienze infermieristiche non abbia l'ambizione di svolgere, tranne casi eccezionali, un'attività ben più qualificata del pulire il paziente e soccorrerlo nelle sue diurne e notturne necessità. Vi saranno dunque una quota crescente di neo professionisti non vocati a coprire le attuali carenze ma destinati a dar vita a una categoria intermedia, di difficile e costosa collocazione. D'altra parte la carenza degli infermieri tradizionali sarà coperta, nel migliore dei casi, dalla assunzione di nuovi Opa (operatori tecnici dell'assistenza, come vengono chiamati gli ex portantini) e di nuovi Oss (operatori socio-sanitari, i vecchi infermieri generici) autorizzati a «toccare» il paziente. Così senza acquistare una Tac in più, tagliando le medicine, scaricando molti oneri sulle famiglie, la spesa sanitaria salirà ancora senza costrutto. I sostenitori di questa riforma sindacal-corporativa si rifanno volentieri alla realtà anglo sassone. Dell'America abbiamo già accennato. Quanto all'Inghilterra è vero che l'infermiere ha un ruolo indipendente ma l'esempio purtroppo non calza, almeno per noi. L'Inghilterra è la patria del servizio infermieristico. La faccia della signora Florence Nightingale l'hanno messa addirittura sulla banconota da 10 pounds e le hanno dedicato anche una bella statua di fronte al Big Ben. Ma negli ospedali di Sua Maestà il servizio infermieristico è rigidamente gerarchico. Gli infermieri, e infermiere, tutti rigorosamente in divisa e cappellino hanno addirittura i gradi sulle spalline esattamente come i militari (infatti il servizio iniziò come servizio assistenziale militare a seguito dell'esercito inglese e la Nightingale ogni mattina passava in rassegna le sue nurses) e nelle corsie degli ospedali inglesi chi comanda, cioè la caposala o sister, si riconosce subito (non come da noi dove non conta quasi più nulla) essendo tra l'altro dotata di una elegante divisa blu a pois bianchi. Negli ospedali inglesi, infine, la carriera infermieristica è regolata da precise regole e periodici concorsi. Se si passa l'esame si attacca un altro gallone sulle mostrine. Da noi il caporalmaggiore non si distingue dal generale; tanto a far carriera ci pensano le leggi con le relative sanatorie e i rapporti sindacali.
(La Repubblica - Mario Pirani- giovedì 17 maggio 2007 - pagina 1)
Sono andata in bagno a vomitare dopo aver letto questo articolo..... è fiato sprecato e anche il mio povero pranzo.......